Qualche giorno fa a Washington hanno chiesto all'ex Supreme Commander della NATO, Generale John Sheehan, un parere sul possibile allargamento della presenza nell'esercito USA agli omosessuali espliciti, superando la controversa politica del "Don’t Ask, Don’t Tell" ("Basta che te lo tieni per te").
Sheehan ha detto che non è giusto che gli omosessuali dichiarati possono servire perché, se 8000 Bosniaci Musulmani furono stati massacrati a Srebrenica nel 1995... è stato perché l'esercito Olandese permette ai soldati gay di servire nell'esercito!!!
Le mammole Olandesi della forza di Pace Europea non sarebbero secondo lui intervenute per palese incapacità in difesa dei perseguitati (né si capisce come avrebbero potuto farlo, essendo stati ammanettati dai Serbi, se non con i superpoteri).
John Sheehan è un fervente Repubblicano, ossia la parte politica che sta osteggiando in questi mesi in tutti i modi il Presidente Barack Obama, anche a costo di gettare il loro Paese e il pianeta nel caos. E lo fa anche rendendosi moderna, usando il web, i cortei a pagamento (e molti telespettatori che saranno eroi per 15 minuti), l'insulto, la bugia. Questa di Srebrenica è ovviamente una scemenza, come le armi di distruzione di massa in maso a Saddam Hussein, giustificazione menzognera alla guerra in Iraq e al disastro che abbiamo visto. Ma la verità non importa, importa distruggere il senso della realtà.
Come sostiene il mio amato Mark Simpson, la fantasia omosessuale della destra paranoica è insuperabile. E senza limiti, se proprio la destra americana fomentava tempo fa lo studio di una Love Bomb, una bomba che - sganciata - avrebbe trasformato tutti i maschi nemici in omosessuali = inetti alla lotta e alla guerra. Servisse una colonna sonora, torna in mente Ask,la canzone degli Smiths "Because if it's not love Then it's the bomb That will bring us together" (Se non è l'amore sarà una bomba ad unirci), con video di Derek Jarman.
Fa paura questa capacità della destra di mentire o di spargere veleno senza paura. Ma la capisco: seminando ignoranza non proprio ha nulla da perdere.
Male che vada, la contraffazione della realtà è già un ottimo risultato, una confusione menzogna = verità che azzera il miglioramento del senso comune e distrugge la percezione della realtà. E il vuoto sarà poi riempito dai mass-media che diventano ago della bilancia con pattumiera news, reality-show, quiz a premi. Ben che vada, bingo!, saranno confermati i peggiori luoghi comuni: che i froci fanno schifo, ad esempio, un classico per tutte le stagioni.
Qui nella palude Italia, fa lo stesso lavoro Vittorio Sgarbi quando dice senza vergogna che se non si rimandano le elezioni regionali come lui chiede, vuol dire che è tornato il Fascismo. Detto da lui!, dalla parte politica di cui gli squadristi sono parte e che lo ingloba come pagliaccio sapiente. Il 1984 è già cominciato, e non finirà presto.
Serve un'immagine recente di questa Srebrenica mentale? Il manifesto affisso a Roma (qui sotto): un ritratto di Emma Bonino taroccato con la faccia del misero Marrazzo, ovvero l'insulto che fa leva sulla transfobìa.
sabato 20 marzo 2010
giovedì 18 marzo 2010
L'ABORTO, E L'ETEROSESSUALITA' COME MACCHINA D'INFELICITA'.
Vogliono permettere l'uso della "pillola del giorno dopo" obbligando la donna a una degenza ospedale (per dissuaderla) anziché aiutarla e semplificare il tutto con il ricovero in day hospital.
Fascisti, e propagatori d'infelicità. Perché proprio sull'infelicità altrui si regge il loro potere e il loro peculato: parlo della chiesa e della destra populista dove tutti sono divorziati, vanno a puttane e predicano moralità (quando addirittura non vanno a uomini). E aggiungono la beffa: dicono di farlo per tutelare la donna e rispettare la legge sull'aborto.
Penso abbia ragione la mia amica Clara: dovrebbero dare il patentino a chi decide di diventare madre o padre, perché il rischio è - solo per ottemperare alla normativa della dittatura eterosussuale - di generare infelici.
Quanti infelici ci sono in giro è facile vederlo: da quanta gente ogni giorno fa fatica a sorridere.
Fascisti, e propagatori d'infelicità. Perché proprio sull'infelicità altrui si regge il loro potere e il loro peculato: parlo della chiesa e della destra populista dove tutti sono divorziati, vanno a puttane e predicano moralità (quando addirittura non vanno a uomini). E aggiungono la beffa: dicono di farlo per tutelare la donna e rispettare la legge sull'aborto.
Penso abbia ragione la mia amica Clara: dovrebbero dare il patentino a chi decide di diventare madre o padre, perché il rischio è - solo per ottemperare alla normativa della dittatura eterosussuale - di generare infelici.
Quanti infelici ci sono in giro è facile vederlo: da quanta gente ogni giorno fa fatica a sorridere.
martedì 16 marzo 2010
Diane Arbus dei Poveri. DI TORINO CE N'E' UNA SOLA.
Ci tornavo da un anno e più per andare in Tribunale (qui, a lato) e chiudere per sempre il litigio con il mio precedente datore di lavoro.
Quello era il mattino dell'ultima firma: come sempre i treni che da Milano arrivano a Torino hanno un buco di 2 ore. Sono arrivato alle 11, e fino alle 13 avevo 2 ore libere. Ho deciso di usarle con un rituale tutto mio, di anamnesi e contrappasso allo stesso tempo: ripercorrere la strada che ogni mattina facevo dall’ex casa mia e dall’ex mio quartiere per andare al lavoro. E’ stato come rivivere i lati belli di un supplizio, di cui ora posso parlare (prima, non volevo aggiungere pittoresco al drammatico).
Vivevo a San Salvario, vale a dire la parte più straordinaria di Torino: il suo popolo è in buona parte terza età ex operai o impiegati, una comunità di giovani professionisti creativi, sottoproletari, un mix etnico impossibile altrove e un pizzico di aristocrazia snob. Ossia, l’Europa che mi piace.
Ecco qualche item saliente del percorso: la Claudiana, libreria dei protestanti, che ha sempre una sorprendente qualità e quantità di proposte in ogni campo, letteratura e saggistica. Una biografia della mia idola Nilde Iotti (che alla FNAC di Milano non hanno neppure ancora!) e se non bastasse “Le Sultane Dimenticate” un libro della femminista marocchina Fatima Mernissi sulle DONNE REGNANTI dei paesi arabi e/o islamici dimenticate dalla storia. Più avanti splende il buco nero dell’hotel Versilia, un albergo di altra categoria che per anni ha fatto vetrina esponendo camioncini e camaleonti di plastica insieme ad altri modellini di piante e fiori, per costruire quello che al finale sembrava un rettilario assurdo ai limiti dell’immondo.
E poi si staglia nel cielo come sempre l’improbabile Sinagoga con la sua imponenza in stile liberty arabo barocco e baraccone. Sembra di marzapane e solo qui trova il suo posto. Andai ad abitare in quella zona per ripetere ogni volta quello shock visivo, e dalla finestra di casa ne intravedevo le torri (guglie? minareti? come si chiameranno? spiedini?).
Quasi arrivato a Porta Nuova trovo un negozio la cui insegna riassume ciò per cui amo Torino: un’ironia sorniona e pragmatica disseminata a mo’ di scaramanzia contro il rischio di credere troppo nella vita.
E passata la stazione, sempre controllando che i negozietti del cuore fossero ancora al loro posto (lo erano: Torino avrà avuto le Olimpiadi ma ciò in cui è campionessa è nel rimanere sempre la stessa). Strada facendo, ricordavo bene perché ero venuto a vivere e lavorare qui. Milanese vero, e di famiglia, odio la bausciaggine di Milano: un mix di spacconeria, inconsistenza e voracità predatoria fatta propria ancor più da quelli che Milanesi non sono. E’ il vuoto di vivere coperto da pretenziose vacuità glassate da performance o sedicente talento estetico.
Torino lascia correre e mantiene il suo decoro. Adoro quel decoro.
Quasi sotto il mio ex posto di lavoro, c’era il mercato, come la prima volta in cui sono venuto. “E’ mercoledì! Come inizia, così finisce...” ho pensato. E infatti c’è una storia bella da raccontare. Nel mio primo giorno di lavoro il proprietario –anni fa- mi chiese cosa provavo per il mio arrivo nella nuova azienda; dissi che la cosa più bella era stato l’essere salutato dal mercato. Mi sembrava da milanese un uso dell'umiltà come scaramanzia, una bella discesa nella realtà: quasi un invito, per noi delle pubblicità e non dimenticare la profonda umanità del “mercato”. Il viso gli si accartocciò in una smorfia di mancata comprensione, e di compassione. Forse non avevo fatto centro.
A qualche centinaio di metri dalla sede dell’equivoco, ho incontrato il fattorino tuttofare (se il messaggio cristiano degli ultimi che saranno i primi è vero, o se in Italia segretamente comandano i Comunisti, era la persona più importante da incontrare). Mi ha fatto le feste, non sapeva ovviamente perché fossi lì.
Poco più avanti sono caduto per terra: davanti al ristorante Cerere –un tempo era gestito dalla mia amica Paola e frequentato tra gli altri anche dalla Daniela, una trans incontenibile che batteva lì in corso Galileo e avevo conosciuto uscendo tardi da lavoro (come s’immagina finivo spesso mooolto tardi).
Potevo dar la colpa ai marciapiedi di Torino, antichi e dissestati, ma l’ho giudicato solo un segno. Ero arrivato dov’ero caduto, sono caduto da dove sono ripartito.
Contuso e felice mi sono diretto zoppo verso il Tribunale (passando a lato della GAM), fotografando vari manifesti elettorali e un’offerta speciale per i funerali.
Torino è anche questo: reclame del funerale su tutti i muri, laica e puntuale. Anch’io feci a suo tempo una campagna pubblicitaria per la più importante impresa di pompe funebri di Torino, uscita mezza sì e mezza no. Uno dei lavori più belli e mentalmente spericolati della mia carriera.
Quello era il mattino dell'ultima firma: come sempre i treni che da Milano arrivano a Torino hanno un buco di 2 ore. Sono arrivato alle 11, e fino alle 13 avevo 2 ore libere. Ho deciso di usarle con un rituale tutto mio, di anamnesi e contrappasso allo stesso tempo: ripercorrere la strada che ogni mattina facevo dall’ex casa mia e dall’ex mio quartiere per andare al lavoro. E’ stato come rivivere i lati belli di un supplizio, di cui ora posso parlare (prima, non volevo aggiungere pittoresco al drammatico).
Vivevo a San Salvario, vale a dire la parte più straordinaria di Torino: il suo popolo è in buona parte terza età ex operai o impiegati, una comunità di giovani professionisti creativi, sottoproletari, un mix etnico impossibile altrove e un pizzico di aristocrazia snob. Ossia, l’Europa che mi piace.
Ecco qualche item saliente del percorso: la Claudiana, libreria dei protestanti, che ha sempre una sorprendente qualità e quantità di proposte in ogni campo, letteratura e saggistica. Una biografia della mia idola Nilde Iotti (che alla FNAC di Milano non hanno neppure ancora!) e se non bastasse “Le Sultane Dimenticate” un libro della femminista marocchina Fatima Mernissi sulle DONNE REGNANTI dei paesi arabi e/o islamici dimenticate dalla storia. Più avanti splende il buco nero dell’hotel Versilia, un albergo di altra categoria che per anni ha fatto vetrina esponendo camioncini e camaleonti di plastica insieme ad altri modellini di piante e fiori, per costruire quello che al finale sembrava un rettilario assurdo ai limiti dell’immondo.
E poi si staglia nel cielo come sempre l’improbabile Sinagoga con la sua imponenza in stile liberty arabo barocco e baraccone. Sembra di marzapane e solo qui trova il suo posto. Andai ad abitare in quella zona per ripetere ogni volta quello shock visivo, e dalla finestra di casa ne intravedevo le torri (guglie? minareti? come si chiameranno? spiedini?).
Quasi arrivato a Porta Nuova trovo un negozio la cui insegna riassume ciò per cui amo Torino: un’ironia sorniona e pragmatica disseminata a mo’ di scaramanzia contro il rischio di credere troppo nella vita.
E passata la stazione, sempre controllando che i negozietti del cuore fossero ancora al loro posto (lo erano: Torino avrà avuto le Olimpiadi ma ciò in cui è campionessa è nel rimanere sempre la stessa). Strada facendo, ricordavo bene perché ero venuto a vivere e lavorare qui. Milanese vero, e di famiglia, odio la bausciaggine di Milano: un mix di spacconeria, inconsistenza e voracità predatoria fatta propria ancor più da quelli che Milanesi non sono. E’ il vuoto di vivere coperto da pretenziose vacuità glassate da performance o sedicente talento estetico.
Torino lascia correre e mantiene il suo decoro. Adoro quel decoro.
Quasi sotto il mio ex posto di lavoro, c’era il mercato, come la prima volta in cui sono venuto. “E’ mercoledì! Come inizia, così finisce...” ho pensato. E infatti c’è una storia bella da raccontare. Nel mio primo giorno di lavoro il proprietario –anni fa- mi chiese cosa provavo per il mio arrivo nella nuova azienda; dissi che la cosa più bella era stato l’essere salutato dal mercato. Mi sembrava da milanese un uso dell'umiltà come scaramanzia, una bella discesa nella realtà: quasi un invito, per noi delle pubblicità e non dimenticare la profonda umanità del “mercato”. Il viso gli si accartocciò in una smorfia di mancata comprensione, e di compassione. Forse non avevo fatto centro.
A qualche centinaio di metri dalla sede dell’equivoco, ho incontrato il fattorino tuttofare (se il messaggio cristiano degli ultimi che saranno i primi è vero, o se in Italia segretamente comandano i Comunisti, era la persona più importante da incontrare). Mi ha fatto le feste, non sapeva ovviamente perché fossi lì.
Poco più avanti sono caduto per terra: davanti al ristorante Cerere –un tempo era gestito dalla mia amica Paola e frequentato tra gli altri anche dalla Daniela, una trans incontenibile che batteva lì in corso Galileo e avevo conosciuto uscendo tardi da lavoro (come s’immagina finivo spesso mooolto tardi).
Potevo dar la colpa ai marciapiedi di Torino, antichi e dissestati, ma l’ho giudicato solo un segno. Ero arrivato dov’ero caduto, sono caduto da dove sono ripartito.
Contuso e felice mi sono diretto zoppo verso il Tribunale (passando a lato della GAM), fotografando vari manifesti elettorali e un’offerta speciale per i funerali.
Torino è anche questo: reclame del funerale su tutti i muri, laica e puntuale. Anch’io feci a suo tempo una campagna pubblicitaria per la più importante impresa di pompe funebri di Torino, uscita mezza sì e mezza no. Uno dei lavori più belli e mentalmente spericolati della mia carriera.
mercoledì 10 marzo 2010
SAN FRANCISCO (è da lì che veniamo?)
“Contraddì, e si contaddisse” era la massima che Leonardo Sciascia avrebbe voluto sulla propria tomba. Non ho fretta nel decidere la frase per il monumento mio, ma intanto metto quella di Leonardo –che poi non ha usato, ha cambiato idea anche in quel caso- qui in attacco di post. Perché conto di scrivere 2 interventi diversi per dire una cosa e il suo opposto. Prima parlo male di San Francisco, anzi di Castro Street poi parlo bene del separatismo gay, motivo per cui critico Castro e il separatismo.
Y vamos con Castro. Sono stato per lavoro a San Francisco e mi domandavo cosa mai avrei provato, una volta arrivato in pellegrinaggio al quartiere gay più celebre del mondo. Non avevo nessuna fretta di arrivarci ma ero proprio curioso. E la rilettura epica che di un film come Milk deponeva un poco in senso positivo.
Devo premettere che a me non piace l’America e il mio sentimento di diffidenza si è confermato. Non perché “è una nazione troppo giovane, non ha cultura”: anzi, sono/siamo cresciuti a pane e America. Semmai perché è una compilation/moltiplicazione di difetti e pregi dell’Occidente che l’ha fondata, uniti a quelli di altre comunità che man mano vanno a popolarla. Tanto a togliere senso alla stessa affermazione "non mi piace l'America".
Diciamo che sento l’arbitrarietà tutta umana del contratto sociale, di questa terra della libertà dove puoi far quello che vuoi a meno di non andare contro la legge. Insomma, ti basta provenire da una famiglia in situazione precaria o dove qualcosa comincia a non funzionare, per fare tu una brutta fine davvero. Mi sembra che l’Europa - pur con tutti i suoi limiti (basta vedere come s’è ridotta l’Italia, a furia di nani che vivono in groppa ai giganti) - mi pare più morbida e vivibile.
Anyway, San Francisco è una città bellissima anche quando fa freddo (cioè quasi sempre), anche se è piena di scoppiati specialmente la mattina presto (è la città di San Francesco e tutti gli sfollati d’America male che vada finiscono lì, anche se i turisti non li vedono), ha un mix di culture e stili di vita straordinario (da Chinatown capisci che la Cina si papperà il mondo, c’è poco da fare) e il dollaro ci permette qualche capriccio in più. E poi le strade inclinate fino ad essere ripide, alcuni quartieri con case bellissime, i tram turistici che ti sembra di prendere il 29 o il 30 (la linea F è dotata di vetture provenienti da varie parti del mondo, per cui puoi finire a Castro Street su un tram dell’ATM milanese!), e soprattutto ha una cucina molto spesso straordinaria. Arrivati a Castro, l’ho percorsa tutta, ho fatto il giro di 500 metri a piedi ed era come essere in via Sammartini però grande. Tutti manifesti di film porno, bar da cucco che giù evito la sera e figuriamoci se m’interessano alle 4 del pomeriggio, sguardi obliqui (persino lì?) e un generale inno all’erotismo porno-style come se il sesso –quel tipo di sesso- fosse l’unica dimensione della vita (e almeno della mia non è). Una delle poco fatte, eccola qui a sinistra.
Era come essere in un parco tematico (infatti i turisti vanno a Castro come fosse Disneyland), un luogo rimasto fuori dal tempo (rimesso a nuovo per girar il film mi hanno detto), una specie di teca del museo di Storia Naturale però abitato ancora da gente vera. OK, la sorellanza mi fa capire che per molti un posto riparato sia ancora necessario, ma se fossi io lo zio, il cugino o l'amante del nuovo manzetto, gli direi che non è quello il posto giusto.
Ad esempio Castro non regge il paragone con un quartiere popoloso come Mission, megamix latino strabordante di ogni tipo di umanità ma neanche non Height e la comunità di ragazzi e ragazze “alternativi” figli di papà... e meno che meno Castro regge il confronto neppure con i suoi omologhi europei tipo Chueca a Madrid o il Marais a Parigi: parti vive e attive della città.
In altre parole, che bisogno c'è di restare lì? Infatti fa molto più effetto trovare una pala d'altare di Keith Haring in una cattedrale, in tutt'altra parte della città. Forse la mania tutta americana inscatolatoria e catalogatoria, che divide la vita in quartieri per allocare le diverse comunità mi rende palese l’insensatezza di un quartiere separato per quelli “come noi”... E soprattuto, come noi chi?
Forse siamo diventati qualcos’altro rispetto all’epoca (e grazie al sacrificio) di Harvey Milk, o forse lo siamo sempre stati e quella è stata una strettoia, concettualmente e storicamente.
Chissà cosa succederà. La parola “fine” l’hanno messa per me Paul e Alfred, una coppia di amici americani intenditori ed esegeti della miglior cucina mondiale “E poi a Castro non c'è niente di buono da mangiare”.
Nelle stesse ore ascoltavo (ma sull'aereo o in hotel, per le strade ho usato bel poco l’iPod) alcuni brani di una compilation: si chiama Disco Discharge Gay Disco & Hi NRG. E’ parte di una seria che mi sembra molto valida, soprattutto per le 2 parti in mio possesso, ossia “Disco Divas” e “Gay Disco”.
E' da quest’ultimo che mi sono venuti le sorprese emotive più intense, forse anche aiutate dal fatto che trasmettevano hi-energy a palla anche da Abercrombie & Fitch dove sono andato più di una volta (era vicino all’hotel). Mi è sempre piaciuta la hi-energy, sintesi di Heidi+marcetta militare.
Questa musica carica di malinconia è stata la colonna sonora della nostra Resistenza. La ballava gente bellissima, eroi da fumetto anche solo per un Sabato Sera, uomini carichi d'insulti ricevuti e reduci dalla chiusura da parte della famiglia e della società. Eppure ostinati a sopravvivere. Conteneva e contiene (come molti altri tipi di disco) la voglia di rispondere all'offesa con una lezione di stile formalizzata, data in modo rituale, ballando. E con quella voglia di ripicca cantilenata, tutta infantile, forse a ricreare l’infanzia che NON abbiamo avuto. Quel ritmo inesorabile scandiva teatralmente il tempo ogni da cacciatore o preda che cercava un complice, e nell’amore subito trovava conferma divertita e un po’ nevrotica della propria esistenza.
Mi sono rivisto e risentito al One Way di Sesto San Giovanni, all’Heaven di Londra, al No Ties di Milano. Eppure già allora –oltre che in questi locali “tutti nostri” andavo per esempio alla Nuova Idea, una discoteca che ha vissuto poco tempo fa gli ultimi giorni, nell’ossessione di distruzione e ricostruzione che ha preso Milano.
Sulla Nuova Idea si potrebbe scrivere un’enciclopedia, come sa chiunque l’ha vista anche una sola volta: un crogiuolo di identità possibili fino alla perdita del concetto stesso di identità. Se si protesta per la chiusura del Plastic, per quella della Nuova Idea avemmo dovuto rifare Stonewall. Anche perché foto NON CE NE SONO, ha ha ha. Gay, lesbiche, trans, etero, cunsciade e povere donne di tutte le età, i sessi, i look o le apparenze possibili che si mescolavano liberamente e non volevano fotografi o telecamere a riprendere questa visione di Fellini in LSD. E non era solo per velataggine, ma anche perché c'è qualcosa di giusto anche nel voler vivere col silenziatore, o con un minimo di privacy.
Eppure, tutti insieme: la Nuova (di cui intanto ho trovato nel suo blog una foto della via d'accesso, un bel paragone con San Francisco!), la Nuova strapaesana e futura era conferma che quel che abbiamo da dire è troppo interessante per non condividerlo, o almeno così era prima della specializzazione in mille sottolocali dove magari puoi fare anche sesso più o meno spinto, ma manca il terreno di confronto. Perché il terreno di confronto è ormai la società intera.
In un certo senso l’hi-energy era tra tutte le musiche quella che già in quegli anni portava in pista un’energia primaria più “specialista” nel campo della disco music, quella maschile “pura e dura” che si riaffermava nonostante il disprezzo sociale attraverso le figure del “macho”, le fantasie alla Tom of Finland, l’estetica del cuoio o del jeans, e titoli che erano già un racconto: “So Many Men, So Little Time”, “Let the Night Take the Blame”, “Native Love”, “Can’t Take My Eyes Off You”
Poi le cose si sono evolute, sono arrivati Boy George, Marc Almond, i Frankie Goes to Hollywood, i Bronski Beat, Morrissey, Madonna e soprattutto i Pet Shop Boys che con “Go West” e alcuni lati dell’estetica hi-energy hanno giocato per alzare il tiro e spostarlo. La musica si è evoluta, si moltiplicavano le sue facce e ricchezze come se la mirror ball con i suoi specchietti appesa in discoteca avesse voluto indicare migliaia di nuove possibilità, e i ritmi nuovi chiedessero un posto: la nuova musica da ballo si chiamava non a caso HOUSE.
Ma quel ritmo inesorabile e giocoso, in particolare una canzone che non conoscevo e mi manda letteralmente fuori del tempo, in sync con un’epoca lontana si chiama “Don't Pretend To Know” dei finora sconosciuti Tapps mi fa rivivere quei momenti. Con il bisogno di “chiamarsi fuori” almeno un po’. Ma quanto fuori? Da dove veniamo e dove andiamo? Quant’è grande la diversità degli uomini che amano gli uomini?
Y vamos con Castro. Sono stato per lavoro a San Francisco e mi domandavo cosa mai avrei provato, una volta arrivato in pellegrinaggio al quartiere gay più celebre del mondo. Non avevo nessuna fretta di arrivarci ma ero proprio curioso. E la rilettura epica che di un film come Milk deponeva un poco in senso positivo.
Devo premettere che a me non piace l’America e il mio sentimento di diffidenza si è confermato. Non perché “è una nazione troppo giovane, non ha cultura”: anzi, sono/siamo cresciuti a pane e America. Semmai perché è una compilation/moltiplicazione di difetti e pregi dell’Occidente che l’ha fondata, uniti a quelli di altre comunità che man mano vanno a popolarla. Tanto a togliere senso alla stessa affermazione "non mi piace l'America".
Diciamo che sento l’arbitrarietà tutta umana del contratto sociale, di questa terra della libertà dove puoi far quello che vuoi a meno di non andare contro la legge. Insomma, ti basta provenire da una famiglia in situazione precaria o dove qualcosa comincia a non funzionare, per fare tu una brutta fine davvero. Mi sembra che l’Europa - pur con tutti i suoi limiti (basta vedere come s’è ridotta l’Italia, a furia di nani che vivono in groppa ai giganti) - mi pare più morbida e vivibile.
Anyway, San Francisco è una città bellissima anche quando fa freddo (cioè quasi sempre), anche se è piena di scoppiati specialmente la mattina presto (è la città di San Francesco e tutti gli sfollati d’America male che vada finiscono lì, anche se i turisti non li vedono), ha un mix di culture e stili di vita straordinario (da Chinatown capisci che la Cina si papperà il mondo, c’è poco da fare) e il dollaro ci permette qualche capriccio in più. E poi le strade inclinate fino ad essere ripide, alcuni quartieri con case bellissime, i tram turistici che ti sembra di prendere il 29 o il 30 (la linea F è dotata di vetture provenienti da varie parti del mondo, per cui puoi finire a Castro Street su un tram dell’ATM milanese!), e soprattutto ha una cucina molto spesso straordinaria. Arrivati a Castro, l’ho percorsa tutta, ho fatto il giro di 500 metri a piedi ed era come essere in via Sammartini però grande. Tutti manifesti di film porno, bar da cucco che giù evito la sera e figuriamoci se m’interessano alle 4 del pomeriggio, sguardi obliqui (persino lì?) e un generale inno all’erotismo porno-style come se il sesso –quel tipo di sesso- fosse l’unica dimensione della vita (e almeno della mia non è). Una delle poco fatte, eccola qui a sinistra.
Era come essere in un parco tematico (infatti i turisti vanno a Castro come fosse Disneyland), un luogo rimasto fuori dal tempo (rimesso a nuovo per girar il film mi hanno detto), una specie di teca del museo di Storia Naturale però abitato ancora da gente vera. OK, la sorellanza mi fa capire che per molti un posto riparato sia ancora necessario, ma se fossi io lo zio, il cugino o l'amante del nuovo manzetto, gli direi che non è quello il posto giusto.
Ad esempio Castro non regge il paragone con un quartiere popoloso come Mission, megamix latino strabordante di ogni tipo di umanità ma neanche non Height e la comunità di ragazzi e ragazze “alternativi” figli di papà... e meno che meno Castro regge il confronto neppure con i suoi omologhi europei tipo Chueca a Madrid o il Marais a Parigi: parti vive e attive della città.
In altre parole, che bisogno c'è di restare lì? Infatti fa molto più effetto trovare una pala d'altare di Keith Haring in una cattedrale, in tutt'altra parte della città. Forse la mania tutta americana inscatolatoria e catalogatoria, che divide la vita in quartieri per allocare le diverse comunità mi rende palese l’insensatezza di un quartiere separato per quelli “come noi”... E soprattuto, come noi chi?
Forse siamo diventati qualcos’altro rispetto all’epoca (e grazie al sacrificio) di Harvey Milk, o forse lo siamo sempre stati e quella è stata una strettoia, concettualmente e storicamente.
Chissà cosa succederà. La parola “fine” l’hanno messa per me Paul e Alfred, una coppia di amici americani intenditori ed esegeti della miglior cucina mondiale “E poi a Castro non c'è niente di buono da mangiare”.
Nelle stesse ore ascoltavo (ma sull'aereo o in hotel, per le strade ho usato bel poco l’iPod) alcuni brani di una compilation: si chiama Disco Discharge Gay Disco & Hi NRG. E’ parte di una seria che mi sembra molto valida, soprattutto per le 2 parti in mio possesso, ossia “Disco Divas” e “Gay Disco”.
E' da quest’ultimo che mi sono venuti le sorprese emotive più intense, forse anche aiutate dal fatto che trasmettevano hi-energy a palla anche da Abercrombie & Fitch dove sono andato più di una volta (era vicino all’hotel). Mi è sempre piaciuta la hi-energy, sintesi di Heidi+marcetta militare.
Questa musica carica di malinconia è stata la colonna sonora della nostra Resistenza. La ballava gente bellissima, eroi da fumetto anche solo per un Sabato Sera, uomini carichi d'insulti ricevuti e reduci dalla chiusura da parte della famiglia e della società. Eppure ostinati a sopravvivere. Conteneva e contiene (come molti altri tipi di disco) la voglia di rispondere all'offesa con una lezione di stile formalizzata, data in modo rituale, ballando. E con quella voglia di ripicca cantilenata, tutta infantile, forse a ricreare l’infanzia che NON abbiamo avuto. Quel ritmo inesorabile scandiva teatralmente il tempo ogni da cacciatore o preda che cercava un complice, e nell’amore subito trovava conferma divertita e un po’ nevrotica della propria esistenza.
Mi sono rivisto e risentito al One Way di Sesto San Giovanni, all’Heaven di Londra, al No Ties di Milano. Eppure già allora –oltre che in questi locali “tutti nostri” andavo per esempio alla Nuova Idea, una discoteca che ha vissuto poco tempo fa gli ultimi giorni, nell’ossessione di distruzione e ricostruzione che ha preso Milano.
Sulla Nuova Idea si potrebbe scrivere un’enciclopedia, come sa chiunque l’ha vista anche una sola volta: un crogiuolo di identità possibili fino alla perdita del concetto stesso di identità. Se si protesta per la chiusura del Plastic, per quella della Nuova Idea avemmo dovuto rifare Stonewall. Anche perché foto NON CE NE SONO, ha ha ha. Gay, lesbiche, trans, etero, cunsciade e povere donne di tutte le età, i sessi, i look o le apparenze possibili che si mescolavano liberamente e non volevano fotografi o telecamere a riprendere questa visione di Fellini in LSD. E non era solo per velataggine, ma anche perché c'è qualcosa di giusto anche nel voler vivere col silenziatore, o con un minimo di privacy.
Eppure, tutti insieme: la Nuova (di cui intanto ho trovato nel suo blog una foto della via d'accesso, un bel paragone con San Francisco!), la Nuova strapaesana e futura era conferma che quel che abbiamo da dire è troppo interessante per non condividerlo, o almeno così era prima della specializzazione in mille sottolocali dove magari puoi fare anche sesso più o meno spinto, ma manca il terreno di confronto. Perché il terreno di confronto è ormai la società intera.
In un certo senso l’hi-energy era tra tutte le musiche quella che già in quegli anni portava in pista un’energia primaria più “specialista” nel campo della disco music, quella maschile “pura e dura” che si riaffermava nonostante il disprezzo sociale attraverso le figure del “macho”, le fantasie alla Tom of Finland, l’estetica del cuoio o del jeans, e titoli che erano già un racconto: “So Many Men, So Little Time”, “Let the Night Take the Blame”, “Native Love”, “Can’t Take My Eyes Off You”
Poi le cose si sono evolute, sono arrivati Boy George, Marc Almond, i Frankie Goes to Hollywood, i Bronski Beat, Morrissey, Madonna e soprattutto i Pet Shop Boys che con “Go West” e alcuni lati dell’estetica hi-energy hanno giocato per alzare il tiro e spostarlo. La musica si è evoluta, si moltiplicavano le sue facce e ricchezze come se la mirror ball con i suoi specchietti appesa in discoteca avesse voluto indicare migliaia di nuove possibilità, e i ritmi nuovi chiedessero un posto: la nuova musica da ballo si chiamava non a caso HOUSE.
Ma quel ritmo inesorabile e giocoso, in particolare una canzone che non conoscevo e mi manda letteralmente fuori del tempo, in sync con un’epoca lontana si chiama “Don't Pretend To Know” dei finora sconosciuti Tapps mi fa rivivere quei momenti. Con il bisogno di “chiamarsi fuori” almeno un po’. Ma quanto fuori? Da dove veniamo e dove andiamo? Quant’è grande la diversità degli uomini che amano gli uomini?
sabato 6 marzo 2010
L'IGNORANZA ARRIVA DALL'ALTO.
L’altro ieri, venerdì 5 marzo sono stato alla Terrazza Martini (spettacolare vista panoramica a fianco) per un incontro tra Liliana Cavani con il suo pubblico di Milano: ho così avuto l’occasione di vedere di persona per la prima volta la celebre lounge e la famosa regista. Non sono un cinefilo né un esegeta della sua opera, ma ho visto nel tempo molti film della signora Cavani, e alcune interviste che me l’hanno sempre fatta sentire, e forse so il perché, molto vicina. Ricordo in particolare la sua recente comparsa, incazzata, nel bellissimo film DI ME COSA NE SAI sulla morte del cinema d’autore in Italia: andava in cerca di una copia completa e in buono stato di “Al di là del bene e del male” per magazzini improvvisati o dimenticati.
Nell’incontro dell’altra sera ha confermato di essere un’autrice e un’intellettuale con una visione molto personale, combattiva e laica. Ha detto cose interessantissime tipo “Ho fatto cinema perché il cinema è la letteratura della mia epoca” ed ha attribuito all’invidia della carta stampata verso l’immagine in movimento la scarsa qualità/quantità di dibattito sul cinema (a differenza dei libri), proprio perché cinema e TV sono 2 mezzi hanno rubato ai quotidiani l’attenzione della massa.
Parlando di Milano come “città moderna d’Italia” (vs Roma “città della storia”) ha ricordato che mentre girava “I Cannibali” (Milano,1969), la gente scavalcava o evitava con indifferenza i cadaveri lasciati in giro per la città per esigenze di scena (come recentemente è successo a Napoli dopo un delitto di camorra). E ha commentato “Il motivo è semplice: la gente cerca di evitare le grane. Altrimenti non si capirebbe perché hanno portato via tanti ebrei, o è salito al potere al potere il nazismo. Tutti siamo bravi ed etici nelle intenzioni, ma spesso si evita di agire davvero, e la differenza si vede solo al momento dei fatti”. T’è capì la Liliana?
Ha poi spiegato come l’è venuto in mente “Il portiere di notte”, ossia per le testimonianze di 2 tra le intervistate del suo documentario “La donna nella Resistenza”: una tornava in vacanza (!) a Dachau ogni anno una o due settimane “per pensare”, e un’altra non riusciva ad accettare che il campo di concentramento l’avesse fatta diventare quel che non avrebbe mai voluto essere ed era purtroppo stata, ossia una che per istinto di sopravvivenza era arrivata a rubare alle proprie compagne di prigionia. Ha raccontato che “Il portiere di notte” – uscito prima in Francia che in Italia - se in Francia aveva avuto critiche negative ma comprensibili perché rendeva eroe un personaggio negativo, in Italia era stato censurato solo perché in una scena la donna faceva l’amore stando sopra l’uomo (!). Al censore che glielo ha comunicato lei ha risposto “Sa, è una cosa che può succedere”. Era l’unica cosa che aveva preoccupato i censori italioti e questo le ha fatto commentare “Del resto si sa: più che un paese religioso, l’Italia è un paese bigotto”.
Ma la cosa più strana è che quando hanno proiettato un bellissimissimo cortometraggio, il suo primo lavoro, “Incontro di notte”, secondo me una storia di omosessualità maschile latente o mancata (era lì da vedere, e il tema ci stava anche perché la Signora Cavani ha poi fatto un film su Tom Ripley che dell'omosessualità celata ha fatto un topos che quel corto in qualche modo anticipava) ma il critico Fabio Francione di Hollywwod Party (Radio3) e l’Assessore alla Cultura Massimo Finazzer Flory si sono complimentati perché a loro faceva venire in mente il melange multietnico e razziale (uno dei 2 attori era di colore).
Come se non bastasse il Finazzer Flory che ha inanellato per tutta la sera luoghi comuni (veniva da rimpiangere Sgarbi) ha concluso l’incontro con un lamento oh tempora oh mores del tipo “Il vero problema oggi è che l’ignoranza arriva dall’alto”.
Ops! Propri lü! Era una confessione d’incapacità? Un’accusa al Presidente del Consiglio inventore della TV spazzatura italiana il cui partito ha peraltro nominato lui Assessore alla Cultura? Misteri della Terrazza Martini.
Alla fine mentre tutti sbevazzavano il cocktail che dà nome alla Terrazza, mi sono avviato verso l’uscita. Ma mi sono imbattuto nella medesima Liliana Cavani, così ho pensato di fare l’unica cosa sensata: parlarle, per il semplice onore di farlo.
Aspettando il mio turno ho pensato che era una donna bellissima, di presenza e carattere deciso come la mia amica Rosamaria (il tratto familiare?); stava dicendo a una ragazza del pubblico che non era preoccupata. Nonostante l’evidente degrado sociale e del ruolo femminile in Italia, si sarebbe preoccupata solo quando avrebbe avuto paura d’essere aggredita una notte da donne teppiste, il che sarebbe anche stato indice che l’effettiva parità era raggiunta.
Io le ho detto che ero curioso di sapere se la copia di “Al di là del bene e del male”.l’aveva finalmente trovata e mi ha risposto che no. Sconsolata: “Quanti musei d’arte contemporanea inutili aprono, e le opere del cinema vanno in malora. Farei pagare il restauro delle opere cinematografiche ai galleristi, con tutti i soldi che fanno”.
Quando le ho ricordato che c’è poca speranza visto che il Presidente del Consiglio attuale è l’inventore della televisione commerciale che ha ucciso il cinema di qualità e che proprio un rappresentante di quella formazione politica ha avuto il pessimo gusto di sentenziare quella sera che “Il vero problema oggi è che l’ignoranza arriva dall’alto” ha sorriso come un taglio, cinica e stoica insieme.
CHE DIESEL TE LA MANDI BUONA.
Forse bisognerebbe dirlo una volta per tutte: la nuova campagna Diesel è una merda. Di più, una pernacchia fascista. Questa nuova discesa verso il basso della reklame fa l’effetto di quelle cafonate subìte nell’adolescenza da parte di un compagno di classe gradasso e a cui non sai come reagire. E in questo caso non puoi chiamare la Profe o il Preside a difenderti, né la Polizia ad arrestare il Signor Rosso (a proposito di bulli, m’ha sempre colpito la quasi omonimia e la somiglianza fisica del proprietario Diesel con Vasco Rossi). Né (se si amasse la censura) si può chiedere il ritiro della campagna all’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria: il meccanismo mentale su cui lavora, pur essendo osceno nella sostanza, è troppo subdolo per essere censurato.
Dunque è solo con l’intelligenza che si può reagire, la stessa intelligenza di cui la campagna di dichiara nemica. E non mi spiace neppure di fargli a mia volta pubblicità, nel timore di un assioma tipo “bene o male, purché se ne parli”. Educazione e misura sono valori più importanti e invitano ad uscire dall’indifferenza.
Personalmente mi manda sempre in stato di all'erta tutta la comunicazione che si basa sul meccanismo del “double bind” emotivo ossia la chiamata a complicità del lettore/spettatore che diventa un gancio continuo fino alla sua totale sottomissione (messa in atto, ad esempio, in alcuni film dell’orrore o anche in pezzi importanti del cinema come “Le Iene” di Tarantino o “Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante” di Greenaway quando tocca il tema del cannibalismo). E’ un espediente/struttura per me inaccettabile perché tende ad escludere la mia intelligenza e trasformarmi in un pollo da batteria, ma fino a un certo punto il mio è e resta un giudizio personale, dettato da stile e sensibilità, senza giudizi di merito sul valore dell’opera (tant’è vero che i gialli mi piacciono).
Parlo invece di schifo quando il meccanismo viene giocato al ribasso, ed è quello che Diesel fa in questo caso con un messaggio paradossale del tipo: se sei intelligente mi capisci, nella vita è meglio essere stupidi.
Nonostante sia stata concepita all’estero (Diesel pensa che i pubblicitari italiani non sono abbastanza bravi a fare gli stupidi) è una campagna che solo da paese in totale deriva umana e cerebrale come il nostro poteva arrivare, con soubrette, prostitute e igieniste dentali candidate alle elezioni e uomini che non vorresti neppure come meccanici per la tua auto in posti di governo e responsabilità.
Dalla nazione che meglio sta mettendo a frutto la dittatura mediatica che si nutre della deficienza di massa programmata, arriva una pubblicità del tutto coerente, il vero T'Inculpop dell'epoca Pop.
Ma, a parte il fatto che il sentirsi dare dello stupido da chi ti vende i jeans ad un prezzo n volte superiore a quello che si può trovare in un'altra rete commerciale tipo H&M e Zara, questo disfattismo furbo, questa poesia del menefreghismo e dell’offesa mostra già il fiato corto. Nei soggetti della campagna pubblicitaria ove ai titoli si affiancano immagini fotografiche il gioco cade e il brillìo dell'operazione scema. Del resto, il fascismo e la propaganda totalitaria diventano oleografiche quando a fianco delle parole arriva l’immagine. E se far sentire orgogliosi gli stupidi di esserlo è un controsenso, far sentire stupidi gl’intelligenti è un nonsenso, una boutade, una puttanata da bar sport.
A differenza di campagne bellissime del passato Diesel (quella sul riscaldamento globale o dell'avvento al potere da parte delle persone di colore), qui si tira fino alla prossima stagione. Autodistruzione e liberazione. Che Diesel te la mandi buona, come se non esistesse più il futuro. Tanto non serve.
Ma va la'... E mettiamola su un piano emotivo, perché su quel livello gioca la campagna. Nel 1984 o nel 2010 la mia inconsistenza/leggerezza/incoerenza sono l’unica cosa veramente personale che ho, e non sono in vendita, o meglio nessuno può interpretarla. Meno che meno una scema che sale su una scala per far vedere le tette a un militare del Checkpoint Charlie.
Per questo eviterò per un po’ di mesi di entrare in negozi che certificano –a caro prezzo- la mia stupidità, e me la terrò gelosamente, tutta per me.
Dunque è solo con l’intelligenza che si può reagire, la stessa intelligenza di cui la campagna di dichiara nemica. E non mi spiace neppure di fargli a mia volta pubblicità, nel timore di un assioma tipo “bene o male, purché se ne parli”. Educazione e misura sono valori più importanti e invitano ad uscire dall’indifferenza.
Personalmente mi manda sempre in stato di all'erta tutta la comunicazione che si basa sul meccanismo del “double bind” emotivo ossia la chiamata a complicità del lettore/spettatore che diventa un gancio continuo fino alla sua totale sottomissione (messa in atto, ad esempio, in alcuni film dell’orrore o anche in pezzi importanti del cinema come “Le Iene” di Tarantino o “Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante” di Greenaway quando tocca il tema del cannibalismo). E’ un espediente/struttura per me inaccettabile perché tende ad escludere la mia intelligenza e trasformarmi in un pollo da batteria, ma fino a un certo punto il mio è e resta un giudizio personale, dettato da stile e sensibilità, senza giudizi di merito sul valore dell’opera (tant’è vero che i gialli mi piacciono).
Parlo invece di schifo quando il meccanismo viene giocato al ribasso, ed è quello che Diesel fa in questo caso con un messaggio paradossale del tipo: se sei intelligente mi capisci, nella vita è meglio essere stupidi.
Nonostante sia stata concepita all’estero (Diesel pensa che i pubblicitari italiani non sono abbastanza bravi a fare gli stupidi) è una campagna che solo da paese in totale deriva umana e cerebrale come il nostro poteva arrivare, con soubrette, prostitute e igieniste dentali candidate alle elezioni e uomini che non vorresti neppure come meccanici per la tua auto in posti di governo e responsabilità.
Dalla nazione che meglio sta mettendo a frutto la dittatura mediatica che si nutre della deficienza di massa programmata, arriva una pubblicità del tutto coerente, il vero T'Inculpop dell'epoca Pop.
Ma, a parte il fatto che il sentirsi dare dello stupido da chi ti vende i jeans ad un prezzo n volte superiore a quello che si può trovare in un'altra rete commerciale tipo H&M e Zara, questo disfattismo furbo, questa poesia del menefreghismo e dell’offesa mostra già il fiato corto. Nei soggetti della campagna pubblicitaria ove ai titoli si affiancano immagini fotografiche il gioco cade e il brillìo dell'operazione scema. Del resto, il fascismo e la propaganda totalitaria diventano oleografiche quando a fianco delle parole arriva l’immagine. E se far sentire orgogliosi gli stupidi di esserlo è un controsenso, far sentire stupidi gl’intelligenti è un nonsenso, una boutade, una puttanata da bar sport.
A differenza di campagne bellissime del passato Diesel (quella sul riscaldamento globale o dell'avvento al potere da parte delle persone di colore), qui si tira fino alla prossima stagione. Autodistruzione e liberazione. Che Diesel te la mandi buona, come se non esistesse più il futuro. Tanto non serve.
Ma va la'... E mettiamola su un piano emotivo, perché su quel livello gioca la campagna. Nel 1984 o nel 2010 la mia inconsistenza/leggerezza/incoerenza sono l’unica cosa veramente personale che ho, e non sono in vendita, o meglio nessuno può interpretarla. Meno che meno una scema che sale su una scala per far vedere le tette a un militare del Checkpoint Charlie.
Per questo eviterò per un po’ di mesi di entrare in negozi che certificano –a caro prezzo- la mia stupidità, e me la terrò gelosamente, tutta per me.
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