venerdì 30 aprile 2010

DA SODOMA A HOLLYWOOD. Quanto amore non ancora mostrato, quanto dolore non raccontato.

Ogni anno Torino torna per una settimana Capitale d’Italia. C’è il Festival del Cinema GLBT (che arriva a XYZ per la varietà di temi e stili), brillantemente chiamato Da Sodoma a Hollywood. Senz’altro la programmazione di quest’anno era eccellente (nuova squadra al lavoro con Giovanni Minerba), forse la vittoria leghista in Regione Piemonte e il presagio di un prossimo Festival negato o annegato nella Bagnacauda univa le persone. E soprattutto c'è il tempo che passa: il Festival è diventato un po’ più “normale”, l’appuntamento arriva prestigioso e rituale (è il Museo Nazionale del Cinema!), i territori dell’immaginario da esplorare e bonificare sono un po' meno difficili da raggiungere.
D'accordo, la memoria è debole, la cultura è fragile ma qualche passo in avanti sarà ben stato fatto, rispetto a quando si lottava per il rispetto minimo circondati da sospetto, burla o indifferenza.

Come ogni anno Torino (e in particolare San Salvario, mio amatissimo ex quartiere multietnico dove ha sede il Cinema Ambrosio) si apre affettuosamente e civilmente. E la settimana scorsa ho provato, come mai prima, una forte sensazione di famiglia. Sarà anche che ho anche conosciuto nella vita reale un amico fino a quel momento quadratino di Facebook. Ma lo straniamento provato in passato e l'estraneità nei confronti di alcuni spezzoni della comunità (tipo le fashion presenzialiste) o davanti al successo a me incomprensibile di alcuni film, nel 2010 si è trasformato in affettuoso senso di compresenza. Siamo tanti, e diversi, e ricchi di idee. Quanto amore non ancora mostrato, quanto dolore non raccontato.

Rispetto all’annosa questione “chissà se la repressione stimola la creatività” (omosessuale o no) che angosciava le generazioni cresciute nell’apartheid –c’è un libro intero di Dominique Fernandez, Il Ratto di Ganimede, sul tema- ormai penso proprio que no que que no.
Sono anzi convinto che la relativizzazione, l'elaborazione (e in fin dei conti la sdrammatizzazione) dell’amore tra persone dello stesso sesso sia una tessera necessaria della nuova civiltà, e proprio dal cinema può prendere il via. E non perché ci si debba omo/logare, adottare il matrimonio come riconoscimento dell’unione e passare la vita dietro le tendine ma perché l’amore è plurale, e i nostri modi di stare insieme avrebbero tanto da insegnare, una volta condivisi, anche agli “etero”**. Mi sembra di parlare d’un happy end, ma è soltanto un happy pause, e me la tengo. Penso ce la meritiamo.

Quest’anno ho visto diverse belle prove: Dzi Croquettes di Raphael Alvarez e Tatiana Issa, un ipertesto filmico su una incredibile trasformazione della danza in rivoluzione sessuale nel Brasile della dittatura militare anni '70; un giudizio universale in formato pellicola, Tú eliges della polifacetica e inarrestabile Antonia San Juan. Un libro di storia come El Consul de Sodoma, biopic sulla vita di Jaime Gil de Viedma, poeta cardine nella costruzione dell’identità omosessuale spagnola; El Niño Pez di Lucia Puenzo, un visionario e imprevedibile trip sulla maternità sofferta e quella immaginata; Nu2, secondo capitolo della saga di Pedro Riutort+La Prohibida, stavolta in versione nero corvino, e diversi cortometraggi uno più bello dell’altro. Ne racconto uno: Paco, opera prima cinematografica di un premiato attore teatrale, Jorge Roelas; un orso sognatore gira carico di borse per un centro commerciale illudendosi che tutti i maschi con cuffiette dell'hifi o telefonino stiano cercando, apprezzando o innamorandosi di lui. Delizioso capovolgimento tra oggettiva e soggettiva e adorabile presa in giro di quell'ossessione al cucco mista a frustrazione tipica di tanti uomini gay. Verrebbe voglia di gridargli "Matta!" o “Illusa!” se in Paco non ci si riconoscesse tutti un po’.

** Disse una volta Asher Colombo, in una presentazione del suo ormai storico saggio Omosessuali Moderni: gli eterosessuali potrebbero imparare da gay o lesbiche (2 indirizzi di laurea ben distinti!) a fare i conti con tradimenti e discontinuità della coppia. Happily Ever After, senza arrivare all’after.

giovedì 29 aprile 2010

IPAZIA.

Film straordinario, di un genere -kolossal storico di ripensamento- un po' fuori moda. Alejandro Amenabar tratteggia l'umanità come un formicaio dove si commettono ingiustizie enormi, e dove il pensiero è sempre e comunque destinato a difendersi. Pessimista ma vero.
Quel che ha più colpito me è l'uso subdolo che la setta dei Parabolani, ma meglio sarebbe dire Paranoiani, fa del martirio di Cristo per lavorare sul patetico e sulla compassione cercando proseliti, salvo poi trasformarsi in un corpo poliziesco manicheo e persecutore.
Quest'ambivalenza è il motivo dell'adozione del Cristianesimo come religione di Stato nell'antica Roma. E' comoda una religione di stato dove il profeta figlio di Dio è sacrificato.
Permetterà anche nei secoli successivi di chiedere la fede (poliziotto buono e poliziotto cattivo in una sola figura) ai popoli massacrati nelle colonie.
Per quanto misogine o demagogiche o infide siano tutte le religioni (tentativo di fare i conti col dolore dell'esistenza), e in particolare quelle monoteiste con il loro Dio Padre Padrone, l'approccio cristiano, poi perfezionato dai cattolici romani è un mix perfetto.
E al cinema l'altra sera mi sono sentito orgogliosamente Pagano.

venerdì 23 aprile 2010

SARANNO SOLO GLI OCCHIALI?

Ho avuto a un certo punto un'illumina-
zione (che nel caso, è forse un black-out), un'intuizione, como un flash.

Ho visto la somiglianza profonda tra certe donne della destra. Non parlo tanto di destra politica ma di destra mentale: a qualcosa dovrà ben servire, e mi sforzo di capire a cosa. Forse è prezioso quel loro essere sferzanti ad ogni costo, fin quasi allo spiacevole, perchè "è necessario".
Mi torna in mente una mia adorabile prof, Gilda Di Marco. Insegnava Lettere nell'unico mio anno di Liceo Scientifico. Mi regalò una grammatica di latino per invitarmi a darci dentro e passare al Liceo Classico (fatto, e con successo). Con dedica di Bertold Brecht per pungere me, comunista immaginario.
La dedica terminava (o forse mi ha detto a voce) con la massima di Dario Fo, anzi di Don Lorenzo Milani: "L'operaio conosce 300 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone."
Grazie, Gilda. Che almeno non sparava agli orsi, o ai precari, ma ai luoghi comuni e alle paure di uno stupido studente.

venerdì 16 aprile 2010

FUORISALONE, E ARISTOCRAZIA PROLETARIA.

Milano è tutta un FuoriSalone e il FuoriSalone è più grande di lei: migliaia di eventi la spossessano dei suoi ritmi abituali e il moto scomposto generato dalla "voglia di nuovo" manda in tilt il sistema cittadino. Le strade sono piene di gente a volte bellissima (parlo sia di uomini che di donne), a volte insopportabile (parlo di imbucati, wannabe, primatisti della tartina e del bicchiere di vino arraffato).
Io sono a casa raffreddato dopo aver aspettato il tram quasi un'ora l'altra notte, e maledico l'incapacità dell'amministrazione comunale di prevedere e governare una manifestazione che ogni anno arriva puntuale, e che per l'immagine della città è una manna. Del resto dlla signora Moratti e della destra al potere in Milano penso il peggio possibile: miopia, speculazione selvaggia e the coi biscotti.

Ma quel che ogni anno mi colpisce è proprio l'accoglienza e la vivacità di Milano al tutto che avanza: davanti a orde di semoventi individualisti (taxi, moto, auto), nella città ingolfata senti anche gente che sul tram si compiace o accetta paziente questo qualcosa che la riguarda molto più della Moda.
Salone del Mobile e il FuoriSalone sono il bacio a Biancaneve morta: e grazie ai soldi di imprese private e alla pazienza esterofila degli abitanti la sedicente metropoli si risveglia. Se negli altri 358 giorni ha l'elettroencefalogramma quasi piatto (già tanto non si spenga per mancanza di segnali), ogni anno il miracolo si compie, tipo liquefazione del sangue di San Gennaro.
Qualsiasi angolo della città (all'interno della circonvallazione) cerca di nobilitarsi per dare spazio all'intelligenza, alla creatività, alla coerenza progettuale. Per contrappunto ci sarebbe da organizzare pullman e portare l'intelligentzia mondiale a visitare i quartieri dormitorio o aree come l'ex Sieroterapico date in pasto al cemento assoluto per mostrare come la Capitale della Moda gestisce se stessa, ma restiamo sulla frenesia del Design.

Quest'anno, oltre ai Mobili più Belli del Mondo e al Design Utile o Futile, anche tutti gli stilistoni cercano di rubare l'attenzione, o un qualsiasi negozio di borsette mette fuori il cartellino "evento" (de che?). E se non bastasse (non basta mai!) ci sono anche i Festival musicali, 2 o 3 insieme, correlati al Design solo nella voglia de fa' cccasino, per arrivare a non so quanti eventi accatastati ogni sera... inevitabilmente non frequentabili tutti, e comunque non secondo criteri che premiano la qualità***.

Questo è il post intimista di un milanese vero (?), che per giunta abita in piena Zona Tortona: per il 2010 ho deciso di non uscire e starmene in casa, salvo visitare gli eventi o i posti dove conosco qualcuno o sono in compagnia: ma per il resto, voglio tenermi gelosamente per me tutta la mia ignoranza del bello e del futuro. Vengano giovani di Pioltello e saranno più avanti di me.

Mi domando il come mai di questa mia reazione (anche perché mi succede puntuale solo al Salone del Mobile ogni anno: mai al Gay Pride, al sabato sera dei ritardatari all'Esselunga o alla FNAC la domenica pomeriggio).
Forse, abituato a costruirmi tutto da solo compreso l'identità e il sistema di valori di riferimento -perché da famiglia operaia, perché gay, perché di sensibilità affettuosa ed inquieta insieme- faccio fatica ad adattarmi all'inaspettata gara d'intelligenza (quasi mi domandassi "dov'eravate ieri?"). Sono inadatto alla folla e alla competizione per ammirare la bella statuina ("bëlla" con la e chiusa a culo di gallina, "beellaaaa" alla milanese spantegata come un risotto al salto e "mmm, bella" - detto da stilista, quasi di malavoglia - sono le 3 varianti di design sonoro possibile). May I leave? Posso non esserci?
Eppure mi sento milanese al 100% in questo refrattario chiamarmi fuori, e andando a Torino nel week-end per vedere qualche film "Da Sodoma a Hollywood".
Bauscia all'incontrario, aristocrazia proletaria.

***Nella foto, Ashley Beedle, una delle orecchie più sensibili del pianeta, che ha suonato Mercoledì 14 al Teatro Franco Parenti, nel festival musicale ELITA (?) ...per 10 persone. Mi sono avvicinato e gli ho detto "It's a honour to have ou here". Mi ha risposto: "Thank you, but where is everyone?"

domenica 11 aprile 2010

SOME PEOPLE SAY DON'T YOU WORRY ABOUT THE AIR, CANTAVA DAVID BYRNE.

"Oh, è caduto l'aereo. Mi spiace..." sembra dire Tinky Winky. L'idea che un personaggio tipo cartoni animati fosse propaganda omosessuale solo perché - maschio (?) - portava la borsetta, faceva pena se non inorridire. Ma era l'idea propugnata da Lech Kaczynski, il presidente polacco appena caduto con l'aeroplano insieme a mezzo suo governo. Poverino. Era un'opinione campata in aria, instabile come quella in cui volava l'aereo presidenziale. Tinky Winky invece va ancora in onda.
E di uomini con la borsetta esibita sono piene le strade d'Italia: la sindrome della borsetta è un volatile corrispettivo dell'invidia del pene?

lunedì 5 aprile 2010

PROVACI ANCORA, FERZAN.

Con "Mine Vaganti" ho avuto due conferme: che Ferzan Ozpetek non sa ancora fare un film ma che - allo stesso tempo - molti altri spettatori pensano di sì.

Da un po' di tempo, vedendo certe maleducazioni dei "nuovi italiani", penso sconsolato "ognuno ha gl'immigrati che si merita". Voglio dire, è inevitabile che chi da una nazione si stabilisca in un'altra riesca ad assimilare della nuova i peggiori difetti; e sarebbe proprio impossibile che non succedesse quando l'esilio è artistico, volontario, non di persona costretta da necessità economiche.
Diciamo che a un/una badante basta portare un anziano fuori casa per rendersi conto che gl'italiani hanno un pessimo comportamento sociale (presempio fanno cagare il cane per strada senza poi pulire, non si fermano con l'auto per lasciar passare i pedoni sulle strisce, parlano col telefonino ad alta voce sui mezzi pubblici). Ferzan Oz invece guarda la TV e si rende conto -con occhi più disincantati e ricettivi dei miei che qui sono nato - di che cosa può piacere agli italiani. In questo senso Ozpetek è un po' badante anche lui, un badante dell'immaginario collettivo.

A riprova involontaria del mio feeling, ho visto il film in un cinema di Prima Visione ma ben lontano dal centro storico milanese (il Ducale di piazza Napoli) e ho sentito i commenti del pubblico: era una celebration! Risate, risate, risate e piaceva ad esempio la reazione di Ennio Fantastichini quando il figlio maggiore si dichiara gay: il commento della coppia di uomini alle mie spalle era "Ehi, che forte il papà!": fossero omofobi soft o gay incanalati nel perbenismo era indifferente, visto che a me Fantastichini pareva sgangherato. Altri alle mie spalle hanno commentato per tutto il tempo il film come avrebbero fatto davanti alla TV di casa, una tipa a lato si è pure tolta le scarpe.
Mettetevi comodi: quello zic in più di spettacolo non è solo il grande schermo, ma il trasgressivo parlare di omosessualità ... argomento in cui riconosciamo il regista turco particolarmente capace, forse perché così è più facile vedere i panni sporchi lavati ed esposti al pubblico. Vada dove vada, lasciamo a questo qualcuno un po' estraneo il compito di farlo, perché non avremmo il coraggio. E i temi che tocca sono più importanti del suo stile o della coerenza.

Dal punto di vista del rigore registico, anziché "Mine Vaganti" per me si poteva chiamarlo "Senza Vergogna, ma con Tanta Buona Volontà". Per tutto il primo tempo mi è sembrato di essere immerso in un torrente di montagna dove infiniti sassolini mi scalfivano nel loro scorrere insensato: erano i personaggi e le battute in libertà, accostati in maniera random.
Per chi ha visto il film (senza rovinare troppo lo spettacolo a chi deve ancora) citerei: a chi la ragazza viziata dalla guida spericolata sfregia la macchina, e per vendicarsi di cosa? I gay devono davvero proporsi in versione culo da barzelletta? E' credibile che la sorella ottusa diventi poi frociarola?
E a proposito di sbambanamento, c'è anche la solita colonna sonora vagamente enfatica, che valorizza ogni momento come fosse un grande momento, e una macchina da presa che nelle scene della famiglia a tavola gira in cerchio, cercando chissà cosa. L'assenza di controllo registico, il repentino cambio di stile nei personaggi, lo sbandamento di ogni come e perché è riuscito a mandare in tilt persino Ilaria Occhini in alcune battute (un mostro di autocontrollo, come si vide l'anno scorso in Mare Nero, di Federico Bondi).

Comunque se piace il genere non so dove ma ci vado, forse "Mine Vaganti" è il miglior film di Ozpetek: uno slalom di luoghi comuni da campionato, con una recitazione a dir poco telefonata fino a rendere solida l'inconsistenza, vestita come sempre da filosofia. Usando come salvacondotto la buona intenzione.

Sì, perché un valore il film ce l'ha: smitizzare un po' l'omosessualità, anzi LE omosessualità anche se con strumenti e stile "tutto va bene". E la scena finale con musica turca in cui la vita e il tempo che passa si trasformano da dolore a catarsi collettiva (dove tutto ritrova il suo posto) è anche bella. Peccato ci sia stato bisogno di un film sbarellato per arrivarci, ma pr un film non muore nessuno. E per la salute mentale collettiva è senz'altro meno dannoso di un'opera di Federico Moccia.

Alcune curiosità: i posti di Lecce sono stati scelti molto bene, e nel film facevano il bagno dove lo facevo sempre io, alla pineta del vizio. Di Patty Pravo, usata come "conferma visionaria", la versione scelta di "Pensiero Stupendo" fa schifo. Ho notato che nelle riprese il logo del computer (la mela del Macintosh) è stato coperto da un adesivo, mentre quello della maglietta rossa di un gay (D&G) no: per definire la deficienza bisogna dare coordinate più precise. Battute come quella su Alberta Ferretti, le avesse fatte un regista etero, gli avremmo dato dello stronzo. Come gay "qualsiasi" (e molto più credibile delle 4 sfrante) compare a un certo punto un tipo molto bello nella parte di un infermiere: ho scoperto nel web essere un famoso truccatore.
C'era poi un altro uomo - più bello della luce - non tra i gay ma nella parte dell'addetto pompe funebri al funerale della nonna. Non sono riuscito a tirarne giù il nome nei titoli di coda. Ditegli che lo amo.

domenica 4 aprile 2010

IO SONO L'AMORE (SAPESSI COM'E' STRANO DIRLO A MILANO).

Ho visto oggi un film "Io sono l'Amore" di Luca Guadagnino. Ero un po' guardingo perché avevo incontrato in un blog che leggo con attenzione una stroncatura a dir poco inesorabile, e l'ho invece trovato più che bello: bellissimo.

E' uno dei film più milanesi che io abbia mai visto, e cita buon cinema (ossia grandi classici: Pasolini, Visconti, Greenaway e Jarman) con una ritmica di racconto, invece, assolutamente originale.
La dilatazione/reinvenzione del tempo narrativo è molto interessante, e per me molto coinvolgente. Dà un effetto straniante a un film sulle reticenze, l'ipocrisia, la negazione e il "rimando della vita" ossia sul male di vivere in versione milanese.
Mi ha ricordato -in versione romanzata- l'ambiente che Marina Spada tratteggia in "Poesia che mi guardi", sulla vita della poetessa milanese Antonia Pozzi.

Stilisticamente è poi ineccepibile: prima di tutto nella scelta dello stile anni '30 per raccontare le origini della fortuna di famiglie d'imprenditori partite senza vergogna dagli affari col regime fascista. Poi nelle riprese delle città molto interessanti (con un paragone tra Londra e Milano che fa apparire più umana Londra!).
E poi nell'uso del tempo di racconto con la valorizzazione drammatica dei "tempi morti" (cieli, prati ecc): tutto quello che in altri film sarebbe "fuori campo" qui serve a mettere in scena di cosa si riempiono le pause e i vuoti di una conversazione educata lombarda (citando in stile il Jarman della camera a mano (e Tilda Swinton come coproduttore qualcosa significa).
Oltretutto Tilda Swinton alienata dalla milanesitudine più odiosa e logorante è davvero bravissima: narrativamente più utile (e credibile)come italo-russa che italo-scozzese come avrebbe potuto risultare più prosaicamente.

Stilisticamente è il film che Tom Ford avrebbe voluto fare, ma non è stato capace di fare. O italianamente è quel che Pappi Corsicato poteva diventare ma non fu.

E poi Milano è bellissima, specialmente sotto la neve.