Ogni anno Torino torna per una settimana Capitale d’Italia. C’è il Festival del Cinema GLBT (che arriva a XYZ per la varietà di temi e stili), brillantemente chiamato Da Sodoma a Hollywood. Senz’altro la programmazione di quest’anno era eccellente (nuova squadra al lavoro con Giovanni Minerba), forse la vittoria leghista in Regione Piemonte e il presagio di un prossimo Festival negato o annegato nella Bagnacauda univa le persone. E soprattutto c'è il tempo che passa: il Festival è diventato un po’ più “normale”, l’appuntamento arriva prestigioso e rituale (è il Museo Nazionale del Cinema!), i territori dell’immaginario da esplorare e bonificare sono un po' meno difficili da raggiungere.
D'accordo, la memoria è debole, la cultura è fragile ma qualche passo in avanti sarà ben stato fatto, rispetto a quando si lottava per il rispetto minimo circondati da sospetto, burla o indifferenza.
Come ogni anno Torino (e in particolare San Salvario, mio amatissimo ex quartiere multietnico dove ha sede il Cinema Ambrosio) si apre affettuosamente e civilmente. E la settimana scorsa ho provato, come mai prima, una forte sensazione di famiglia. Sarà anche che ho anche conosciuto nella vita reale un amico fino a quel momento quadratino di Facebook. Ma lo straniamento provato in passato e l'estraneità nei confronti di alcuni spezzoni della comunità (tipo le fashion presenzialiste) o davanti al successo a me incomprensibile di alcuni film, nel 2010 si è trasformato in affettuoso senso di compresenza. Siamo tanti, e diversi, e ricchi di idee. Quanto amore non ancora mostrato, quanto dolore non raccontato.
Rispetto all’annosa questione “chissà se la repressione stimola la creatività” (omosessuale o no) che angosciava le generazioni cresciute nell’apartheid –c’è un libro intero di Dominique Fernandez, Il Ratto di Ganimede, sul tema- ormai penso proprio que no que que no.
Sono anzi convinto che la relativizzazione, l'elaborazione (e in fin dei conti la sdrammatizzazione) dell’amore tra persone dello stesso sesso sia una tessera necessaria della nuova civiltà, e proprio dal cinema può prendere il via. E non perché ci si debba omo/logare, adottare il matrimonio come riconoscimento dell’unione e passare la vita dietro le tendine ma perché l’amore è plurale, e i nostri modi di stare insieme avrebbero tanto da insegnare, una volta condivisi, anche agli “etero”**. Mi sembra di parlare d’un happy end, ma è soltanto un happy pause, e me la tengo. Penso ce la meritiamo.
Quest’anno ho visto diverse belle prove: Dzi Croquettes di Raphael Alvarez e Tatiana Issa, un ipertesto filmico su una incredibile trasformazione della danza in rivoluzione sessuale nel Brasile della dittatura militare anni '70; un giudizio universale in formato pellicola, Tú eliges della polifacetica e inarrestabile Antonia San Juan. Un libro di storia come El Consul de Sodoma, biopic sulla vita di Jaime Gil de Viedma, poeta cardine nella costruzione dell’identità omosessuale spagnola; El Niño Pez di Lucia Puenzo, un visionario e imprevedibile trip sulla maternità sofferta e quella immaginata; Nu2, secondo capitolo della saga di Pedro Riutort+La Prohibida, stavolta in versione nero corvino, e diversi cortometraggi uno più bello dell’altro. Ne racconto uno: Paco, opera prima cinematografica di un premiato attore teatrale, Jorge Roelas; un orso sognatore gira carico di borse per un centro commerciale illudendosi che tutti i maschi con cuffiette dell'hifi o telefonino stiano cercando, apprezzando o innamorandosi di lui. Delizioso capovolgimento tra oggettiva e soggettiva e adorabile presa in giro di quell'ossessione al cucco mista a frustrazione tipica di tanti uomini gay. Verrebbe voglia di gridargli "Matta!" o “Illusa!” se in Paco non ci si riconoscesse tutti un po’.
** Disse una volta Asher Colombo, in una presentazione del suo ormai storico saggio Omosessuali Moderni: gli eterosessuali potrebbero imparare da gay o lesbiche (2 indirizzi di laurea ben distinti!) a fare i conti con tradimenti e discontinuità della coppia. Happily Ever After, senza arrivare all’after.
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