mercoledì 7 luglio 2010

SALO', 40 ANNI DOPO.

Mi ha fatto un certo effetto rivedere "Salò o le 120 giornate di Sodoma" il 28 giugno 2010, nel giorno esatto dell'Orgoglio Gay
(il Capodanno degli/delle omosessuali), al Festival MIX MILANO. Ho provato tutt'altre sensazioni rispetto al passato, ho pensato tutt'altre cose rispetto alle altre 2 volte in cui l'ho visto.
Avrebbe innanzitutto mai voluto o immaginato Pier Paolo Pasolini un tributo a lui dedicato in un Festival di Cinema LGBTQ XYZ?

Senz'altro Pier Paolo sarebbe utile oggi a quella nazione sbirola nella forma e nel modo d'essere, o almeno alla sua parte migliore. Ma al 2010 Pasolini non sarebbe mai arrivato: avrebbero trovato modo di ammazzarlo prima comunque.
Il film invece mantiene tutta la potenza espressiva, anzi penso abbia guadagnato in potenza dell'urlo.

Mi sono sempre domandato -me lo chiesi la prima volta vedendo il film, uscito poco dopo la morte del Poeta- se la morte di Pasolini non fosse parte del film. Non riesco ad immaginare un film come "Salò" da parte di un regista in vita. Dopo, cosa avrebbe detto?

Ma vediamo cosa ci dice ora, o almeno cosa dice a me. Mi hanno colpito prima di tutto i quadri futuristi e l'arredamento anni '30 così perfettamente restituito ai nostri occhi. Avendo visto da poco gl'interni di Villa Necchi in "Io Sono l'Amore" di Luca Guadagnino, mi sono chiesto se quegli interni possono essere stati scenografia di qualcos'altro rispetto al male assoluto. Forse no. Ma è mai esistito un "fascismo buono"? Chissà.

Poi mi ha colpito il fatto che tante comportamenti sessuali, un tempo schifosi e innominabili (la golden shower, per esempio), nell'era internet siano stati declassificati a giochini e innocuo passatempo.
Certo non ci sono più i bei ragazzoni e le brave ragazze di una volta i figli del popolo che nel film vengono rappresentati come vittime, quel mondo un po' "buon selvaggio" di cui Pasolini lamentava l'estinzione (forse anche perché gli venivano a mancare i maschi bonaccioni a pagamento disponibili in libera uscita dalla caserma e infatti stava per nascere il movimento gay).

Mi hanno poi infastidito le parole pesanti di Pasolini sulla sodomia: nel film, una forma di sottomissione e annullamento del maschio, paragonabile e forse più efficace (perché ripetibile) dell'omicidio. Mi sono chiesto se era effetto collaterale dell'omofobia introiettata da Pierpa, una descrizione tragica e rituale o solo un "innocente" escamotage di sceneggiatura.
Certo un po' di disprezzo (se non di pallottole) verso gli uomini che amano gli uomini, discorsi così li attirano. Ma forse Pasolini è una figura tragica come il Caravaggio di Derek Jarman ossia totalmente uncorrect e non giudicabile secondo criteri convenzionali.

Mi ha poi stupito quanto il film giochi abilmente con la perversione dello spettatore. Io ammetto che certi momenti di dominazione+accoppiamento tra uomini li trovavo e li trovo comunque eccitanti (tipo il palpamento del baffone superdotato).
In questo senso Pasolini mette in scena (e fa leva sul) sentimento di rivalsa di chi vive un amore "di minoranza". Incredulo, pensa che tutti potrebbero forse essere come lui. Oltre che a ispirare milioni di amori impossibili, su questo sentimento campa oggi tutta la pornografia "gay for pay" o "broken straight" (basta pagarli, e vedrai che ci stanno tutti).

Ma il contrasto di giudizio più forte è sul tema del matrimonio tra uomini: nel film è rappresentato come una gogna, una grottesca sopraffazione dei persecutori sui perseguitati. Ma proprio per il matrimonio molti di noi stanno lottando, e al Festival American Apparel distribuiva in omaggio le t-shirt Legalize Gay.
Siamo rincretiniti del tutto o ci siamo emancipati? E se il capo dei carnefici del film sembra tirato fuori dal manicomio (ha la stessa tinta di Mengacci), quello con la barba sembra sex symbol di un sito bear. E il sadomasochismo è per molti liberatorio.

Ho lasciato perdere con le considerazioni in libertà vigilata mentre la trama proseguiva. Tanto continuava inesorabile il gioco al ribasso del film, dove tutto fa brodo, anzi tutto fa merda. La parte coprofila è infatti l'unico vero tabù che resta nel film, a tutt'oggi inosabile, sfregio assoluto.
Ma bisogna riconoscere che il talento profetico del film si è avverato e di merda da allora a oggi ne abbiamo mangiata grazie alla TV spazzatura, ai capovolgimenti del senso comune, alla discesa del minimo comun denominatore collettivo.
Il Capo della Protezione Civile che tra un aiuto ai terremotati e l'altro va a farsi fare i massaggi in un Centro Estetico, puttane -escort- candidate al Comune che nascondono il registratore mentre trombano con il Presidente del Consiglio e si vendicano per non essere state aiutate a costruire palazzine, la Chiesa che ha da dire se in Belgio perquisiscono i suoi archivi in cerca di prove contro i preti pedofili... Forse siamo nel bel mezzo dei racconti delle ammalianti signore del film.

Aspettiamo dunque che "Salò o le 120 giornate di Sodoma" finisca per poter giudicare.

Ricordo che il film era proiettato a MIX MILANO, il Festival di Cinema LGBTQ XYZ osteggiato dall'Amministrazione Comunale che però concede la propria sede, Palazzo Marino, per una festa di stilisti omosessuali, ed evasori fiscali. A Milano, città Medaglia d'Oro della Resistenza.

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