martedì 15 febbraio 2011

SOCIOLOGICO, MA CHE DICO ANTROPOLOGICO.

era una proiezione gratuita su invito del Comune di Milano. il film era “Il Cigno Nero”, candidato a ben 5 Oscar. e il cinema era il Dal Verme: solo 30 anni fa da glorioso cinema teatro si era col tempo degradato fino a diventare negli anni ‘70 un cine gay di battuage, e in pieno centro (foro Buonaparte!). ormai proiettava i porno (etero).
famoso tra i miei amici era il racconto di una scena riportata dal mio amico Enzo Lancini come uno spettacolo. fu quando nella scena di un film qualunque in una serata qualsiasi, mentre il viavai tra tende rosse pesanti e gabinetti continuava, un’inquadratura particolarmente osé portò sul grande schermo in primissimo piano una vagina gigante. una checca tra le tende urlò “ma vaaa... datela al gatto”.

adesso il Dal Verme l’hanno restaurato ed è un gioiello della Milano che insomma. il pubblico della serata sembrava messo insieme con un mix di metodo e noia: cinefili giovani, vecchi, amichi di funzionari, funzionari in pensione, raccomandati e amici, giornaliste snob delle cause perse, un’altra decine di tipologie random.

l’assessore alla Cultura del Comune, quello col nome che sembra una marca di sanitari, Finazzer Flory ha detto nella presentazione microfonata che aveva già visto il film, "la splendida interprete da vicino" (che invidia!) e aveva lottato per averlo in anteprima a Milano “...duro, difficile... parla di un tema finora poco trattato” (quale?, chiederei adesso che il film l’ho visto) e ha continuato “è un’opera di riilevo sociologico, ma che dico, antropologico”.
non so che cos’avesse visto l’Asesur ma “Il cigno nero” è un pastiche di banalità psicoqualcosa, luoghi comuni senza lievito ed effetti poco speciali, dopo la prima ora ho pensato “meno male che non ho pagato”.
e continuava il cortocircuito che mi faceva la proiezione in quella sala (una nemesi del sesso pur miseramente praticato contro quello nobilmente evocato?).
quest’analisi del Bene e del Male legati alla sessualità attraverso l’arte (dalla danza classica che eleva al legame tra artista e impresario, con la figura materna ossessiva e il senso di persecuzione vs la ricerca di eccellenza) è nobile. ma parte alla ricerca dell’Assoluto e finisce dal parrucchiere.
fino a metà film ho pensato che l'esito involontario del film fosse dimostrare che l'eterosessualità istituzionalizzata è una forma di malattia mentale.
ma con pazienza, e sentendo l’approvazione del pubblico non pagante, ho poi capito che “il cigno nero” è un’opera d’arte coerente e perfetta. è un’ascesi per un pubblico di un’epoca minorata, lo psicodramma aspirazionale senza altre pretese che far sentire intelligente la sciura e il faccendiere negli anni dell’inebetimento televisivo assoluto. ma ci riesce.

"il Cigno Nero" è la stupidità da reality show mandata nel castello degli specchi dopo averla fatta bere un po'. ma l’Assessore l'ha trovato divino, e forse con lui anche la donna famosa che fotografavano all’uscita. indifferente ai flash come una diva perduta (forse mai arrivata). fremevano le sue labbra che avevano conosciuto il bisturi, e molte volte, fino a dimenticare per cosa erano state create. degna celebrità di degno pubblico in degna città.

contenuto e contesto ci ricordavano di essere nell’ex Capitale Morale d’Italia, ora covo delle bande seminasabbianegliocchi di Berlusconia e del cui governo locale l’Assessore è eminenza culturale. la proiezione gratuita infatti sapeva già di campagna elettorale. il Finazzer Flory - che ha molto lottato per portare tra noi “il Cigno Nero” - ha anche promesso che sarà solo il primo tra i film in anteprima per la Città di Milano “che lo merita, perché con un film al mese così... “.
veniva da concludere la frase da lui lasciata in sospeso “...perfezioniamo l’opera di dementizzazione dell’esistente”. con la conferma degli Oscar, chissà. ne hanno tanti da dare ogni anno, e qualcuno arriverà anche a questo cataplasma proiettato al Dal Verme.

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