martedì 16 marzo 2010

Diane Arbus dei Poveri. DI TORINO CE N'E' UNA SOLA.

Ci tornavo da un anno e più per andare in Tribunale (qui, a lato) e chiudere per sempre il litigio con il mio precedente datore di lavoro.
Quello era il mattino dell'ultima firma: come sempre i treni che da Milano arrivano a Torino hanno un buco di 2 ore. Sono arrivato alle 11, e fino alle 13 avevo 2 ore libere. Ho deciso di usarle con un rituale tutto mio, di anamnesi e contrappasso allo stesso tempo: ripercorrere la strada che ogni mattina facevo dall’ex casa mia e dall’ex mio quartiere per andare al lavoro. E’ stato come rivivere i lati belli di un supplizio, di cui ora posso parlare (prima, non volevo aggiungere pittoresco al drammatico).

Vivevo a San Salvario, vale a dire la parte più straordinaria di Torino: il suo popolo è in buona parte terza età ex operai o impiegati, una comunità di giovani professionisti creativi, sottoproletari, un mix etnico impossibile altrove e un pizzico di aristocrazia snob. Ossia, l’Europa che mi piace.
Ecco qualche item saliente del percorso: la Claudiana, libreria dei protestanti, che ha sempre una sorprendente qualità e quantità di proposte in ogni campo, letteratura e saggistica. Una biografia della mia idola Nilde Iotti (che alla FNAC di Milano non hanno neppure ancora!) e se non bastasse “Le Sultane Dimenticate” un libro della femminista marocchina Fatima Mernissi sulle DONNE REGNANTI dei paesi arabi e/o islamici dimenticate dalla storia. Più avanti splende il buco nero dell’hotel Versilia, un albergo di altra categoria che per anni ha fatto vetrina esponendo camioncini e camaleonti di plastica insieme ad altri modellini di piante e fiori, per costruire quello che al finale sembrava un rettilario assurdo ai limiti dell’immondo.
E poi si staglia nel cielo come sempre l’improbabile Sinagoga con la sua imponenza in stile liberty arabo barocco e baraccone. Sembra di marzapane e solo qui trova il suo posto. Andai ad abitare in quella zona per ripetere ogni volta quello shock visivo, e dalla finestra di casa ne intravedevo le torri (guglie? minareti? come si chiameranno? spiedini?).

Quasi arrivato a Porta Nuova trovo un negozio la cui insegna riassume ciò per cui amo Torino: un’ironia sorniona e pragmatica disseminata a mo’ di scaramanzia contro il rischio di credere troppo nella vita.

E passata la stazione, sempre controllando che i negozietti del cuore fossero ancora al loro posto (lo erano: Torino avrà avuto le Olimpiadi ma ciò in cui è campionessa è nel rimanere sempre la stessa). Strada facendo, ricordavo bene perché ero venuto a vivere e lavorare qui. Milanese vero, e di famiglia, odio la bausciaggine di Milano: un mix di spacconeria, inconsistenza e voracità predatoria fatta propria ancor più da quelli che Milanesi non sono. E’ il vuoto di vivere coperto da pretenziose vacuità glassate da performance o sedicente talento estetico.
Torino lascia correre e mantiene il suo decoro. Adoro quel decoro.

Quasi sotto il mio ex posto di lavoro, c’era il mercato, come la prima volta in cui sono venuto. “E’ mercoledì! Come inizia, così finisce...” ho pensato. E infatti c’è una storia bella da raccontare. Nel mio primo giorno di lavoro il proprietario –anni fa- mi chiese cosa provavo per il mio arrivo nella nuova azienda; dissi che la cosa più bella era stato l’essere salutato dal mercato. Mi sembrava da milanese un uso dell'umiltà come scaramanzia, una bella discesa nella realtà: quasi un invito, per noi delle pubblicità e non dimenticare la profonda umanità del “mercato”. Il viso gli si accartocciò in una smorfia di mancata comprensione, e di compassione. Forse non avevo fatto centro.

A qualche centinaio di metri dalla sede dell’equivoco, ho incontrato il fattorino tuttofare (se il messaggio cristiano degli ultimi che saranno i primi è vero, o se in Italia segretamente comandano i Comunisti, era la persona più importante da incontrare). Mi ha fatto le feste, non sapeva ovviamente perché fossi lì.
Poco più avanti sono caduto per terra: davanti al ristorante Cerere –un tempo era gestito dalla mia amica Paola e frequentato tra gli altri anche dalla Daniela, una trans incontenibile che batteva lì in corso Galileo e avevo conosciuto uscendo tardi da lavoro (come s’immagina finivo spesso mooolto tardi).
Potevo dar la colpa ai marciapiedi di Torino, antichi e dissestati, ma l’ho giudicato solo un segno. Ero arrivato dov’ero caduto, sono caduto da dove sono ripartito.
Contuso e felice mi sono diretto zoppo verso il Tribunale (passando a lato della GAM), fotografando vari manifesti elettorali e un’offerta speciale per i funerali.
Torino è anche questo: reclame del funerale su tutti i muri, laica e puntuale. Anch’io feci a suo tempo una campagna pubblicitaria per la più importante impresa di pompe funebri di Torino, uscita mezza sì e mezza no. Uno dei lavori più belli e mentalmente spericolati della mia carriera.

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