mercoledì 10 marzo 2010

SAN FRANCISCO (è da lì che veniamo?)

“Contraddì, e si contaddisse” era la massima che Leonardo Sciascia avrebbe voluto sulla propria tomba. Non ho fretta nel decidere la frase per il monumento mio, ma intanto metto quella di Leonardo –che poi non ha usato, ha cambiato idea anche in quel caso- qui in attacco di post. Perché conto di scrivere 2 interventi diversi per dire una cosa e il suo opposto. Prima parlo male di San Francisco, anzi di Castro Street poi parlo bene del separatismo gay, motivo per cui critico Castro e il separatismo.

Y vamos con Castro. Sono stato per lavoro a San Francisco e mi domandavo cosa mai avrei provato, una volta arrivato in pellegrinaggio al quartiere gay più celebre del mondo. Non avevo nessuna fretta di arrivarci ma ero proprio curioso. E la rilettura epica che di un film come Milk deponeva un poco in senso positivo.
Devo premettere che a me non piace l’America e il mio sentimento di diffidenza si è confermato. Non perché “è una nazione troppo giovane, non ha cultura”: anzi, sono/siamo cresciuti a pane e America. Semmai perché è una compilation/moltiplicazione di difetti e pregi dell’Occidente che l’ha fondata, uniti a quelli di altre comunità che man mano vanno a popolarla. Tanto a togliere senso alla stessa affermazione "non mi piace l'America".
Diciamo che sento l’arbitrarietà tutta umana del contratto sociale, di questa terra della libertà dove puoi far quello che vuoi a meno di non andare contro la legge. Insomma, ti basta provenire da una famiglia in situazione precaria o dove qualcosa comincia a non funzionare, per fare tu una brutta fine davvero. Mi sembra che l’Europa - pur con tutti i suoi limiti (basta vedere come s’è ridotta l’Italia, a furia di nani che vivono in groppa ai giganti) - mi pare più morbida e vivibile.

Anyway, San Francisco è una città bellissima anche quando fa freddo (cioè quasi sempre), anche se è piena di scoppiati specialmente la mattina presto (è la città di San Francesco e tutti gli sfollati d’America male che vada finiscono lì, anche se i turisti non li vedono), ha un mix di culture e stili di vita straordinario (da Chinatown capisci che la Cina si papperà il mondo, c’è poco da fare) e il dollaro ci permette qualche capriccio in più. E poi le strade inclinate fino ad essere ripide, alcuni quartieri con case bellissime, i tram turistici che ti sembra di prendere il 29 o il 30 (la linea F è dotata di vetture provenienti da varie parti del mondo, per cui puoi finire a Castro Street su un tram dell’ATM milanese!), e soprattutto ha una cucina molto spesso straordinaria. Arrivati a Castro, l’ho percorsa tutta, ho fatto il giro di 500 metri a piedi ed era come essere in via Sammartini però grande. Tutti manifesti di film porno, bar da cucco che giù evito la sera e figuriamoci se m’interessano alle 4 del pomeriggio, sguardi obliqui (persino lì?) e un generale inno all’erotismo porno-style come se il sesso –quel tipo di sesso- fosse l’unica dimensione della vita (e almeno della mia non è). Una delle poco fatte, eccola qui a sinistra.

Era come essere in un parco tematico (infatti i turisti vanno a Castro come fosse Disneyland), un luogo rimasto fuori dal tempo (rimesso a nuovo per girar il film mi hanno detto), una specie di teca del museo di Storia Naturale però abitato ancora da gente vera. OK, la sorellanza mi fa capire che per molti un posto riparato sia ancora necessario, ma se fossi io lo zio, il cugino o l'amante del nuovo manzetto, gli direi che non è quello il posto giusto.
Ad esempio Castro non regge il paragone con un quartiere popoloso come Mission, megamix latino strabordante di ogni tipo di umanità ma neanche non Height e la comunità di ragazzi e ragazze “alternativi” figli di papà... e meno che meno Castro regge il confronto neppure con i suoi omologhi europei tipo Chueca a Madrid o il Marais a Parigi: parti vive e attive della città.
In altre parole, che bisogno c'è di restare lì? Infatti fa molto più effetto trovare una pala d'altare di Keith Haring in una cattedrale, in tutt'altra parte della città. Forse la mania tutta americana inscatolatoria e catalogatoria, che divide la vita in quartieri per allocare le diverse comunità mi rende palese l’insensatezza di un quartiere separato per quelli “come noi”... E soprattuto, come noi chi?
Forse siamo diventati qualcos’altro rispetto all’epoca (e grazie al sacrificio) di Harvey Milk, o forse lo siamo sempre stati e quella è stata una strettoia, concettualmente e storicamente.
Chissà cosa succederà. La parola “fine” l’hanno messa per me Paul e Alfred, una coppia di amici americani intenditori ed esegeti della miglior cucina mondiale “E poi a Castro non c'è niente di buono da mangiare”.

Nelle stesse ore ascoltavo (ma sull'aereo o in hotel, per le strade ho usato bel poco l’iPod) alcuni brani di una compilation: si chiama Disco Discharge Gay Disco & Hi NRG. E’ parte di una seria che mi sembra molto valida, soprattutto per le 2 parti in mio possesso, ossia “Disco Divas” e “Gay Disco”.
E' da quest’ultimo che mi sono venuti le sorprese emotive più intense, forse anche aiutate dal fatto che trasmettevano hi-energy a palla anche da Abercrombie & Fitch dove sono andato più di una volta (era vicino all’hotel). Mi è sempre piaciuta la hi-energy, sintesi di Heidi+marcetta militare.
Questa musica carica di malinconia è stata la colonna sonora della nostra Resistenza. La ballava gente bellissima, eroi da fumetto anche solo per un Sabato Sera, uomini carichi d'insulti ricevuti e reduci dalla chiusura da parte della famiglia e della società. Eppure ostinati a sopravvivere. Conteneva e contiene (come molti altri tipi di disco) la voglia di rispondere all'offesa con una lezione di stile formalizzata, data in modo rituale, ballando. E con quella voglia di ripicca cantilenata, tutta infantile, forse a ricreare l’infanzia che NON abbiamo avuto. Quel ritmo inesorabile scandiva teatralmente il tempo ogni da cacciatore o preda che cercava un complice, e nell’amore subito trovava conferma divertita e un po’ nevrotica della propria esistenza.

Mi sono rivisto e risentito al One Way di Sesto San Giovanni, all’Heaven di Londra, al No Ties di Milano. Eppure già allora –oltre che in questi locali “tutti nostri” andavo per esempio alla Nuova Idea, una discoteca che ha vissuto poco tempo fa gli ultimi giorni, nell’ossessione di distruzione e ricostruzione che ha preso Milano.
Sulla Nuova Idea si potrebbe scrivere un’enciclopedia, come sa chiunque l’ha vista anche una sola volta: un crogiuolo di identità possibili fino alla perdita del concetto stesso di identità. Se si protesta per la chiusura del Plastic, per quella della Nuova Idea avemmo dovuto rifare Stonewall. Anche perché foto NON CE NE SONO, ha ha ha. Gay, lesbiche, trans, etero, cunsciade e povere donne di tutte le età, i sessi, i look o le apparenze possibili che si mescolavano liberamente e non volevano fotografi o telecamere a riprendere questa visione di Fellini in LSD. E non era solo per velataggine, ma anche perché c'è qualcosa di giusto anche nel voler vivere col silenziatore, o con un minimo di privacy.
Eppure, tutti insieme: la Nuova (di cui intanto ho trovato nel suo blog una foto della via d'accesso, un bel paragone con San Francisco!), la Nuova strapaesana e futura era conferma che quel che abbiamo da dire è troppo interessante per non condividerlo, o almeno così era prima della specializzazione in mille sottolocali dove magari puoi fare anche sesso più o meno spinto, ma manca il terreno di confronto. Perché il terreno di confronto è ormai la società intera.
In un certo senso l’hi-energy era tra tutte le musiche quella che già in quegli anni portava in pista un’energia primaria più “specialista” nel campo della disco music, quella maschile “pura e dura” che si riaffermava nonostante il disprezzo sociale attraverso le figure del “macho”, le fantasie alla Tom of Finland, l’estetica del cuoio o del jeans, e titoli che erano già un racconto: “So Many Men, So Little Time”, “Let the Night Take the Blame”, “Native Love”, “Can’t Take My Eyes Off You”
Poi le cose si sono evolute, sono arrivati Boy George, Marc Almond, i Frankie Goes to Hollywood, i Bronski Beat, Morrissey, Madonna e soprattutto i Pet Shop Boys che con “Go West” e alcuni lati dell’estetica hi-energy hanno giocato per alzare il tiro e spostarlo. La musica si è evoluta, si moltiplicavano le sue facce e ricchezze come se la mirror ball con i suoi specchietti appesa in discoteca avesse voluto indicare migliaia di nuove possibilità, e i ritmi nuovi chiedessero un posto: la nuova musica da ballo si chiamava non a caso HOUSE.
Ma quel ritmo inesorabile e giocoso, in particolare una canzone che non conoscevo e mi manda letteralmente fuori del tempo, in sync con un’epoca lontana si chiama “Don't Pretend To Know” dei finora sconosciuti Tapps mi fa rivivere quei momenti. Con il bisogno di “chiamarsi fuori” almeno un po’. Ma quanto fuori? Da dove veniamo e dove andiamo? Quant’è grande la diversità degli uomini che amano gli uomini?

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